Editoriale
Dieci anni fa moriva Ruggero Chiesa. Così d’acchito,
la prima sensazione è quella dell’immediatezza, della freschezza
del ricordo: anche se può sembrare un luogo comune, ci pare veramente
siano passati solo pochi giorni da quando entrava e usciva dall’aula
220 del Conservatorio di Milano – autentica officina artistica – oppure
da quando lo vedevamo seduto al suo tavolo da lavoro – vero e proprio
laboratorio culturale – sommerso da carte e documenti di ogni tipo.
Certo, sembrerebbe ancora ieri di assistere alla sua autorevole partecipazione
alla vita musicale internazionale, quando la sua figura era stimata e
le sue opinioni erano tenute in grande considerazione, anche – e
soprattutto – al di fuori del ristretto ambito chitarristico. Ma
un conto sono i ricordi e le sensazioni soggettive, un altro l’oggettivo
stato della realtà. E la realtà odierna, sempre più frenetica
e vorticosa, divora le informazioni con la stessa velocità con
cui le dimentica: dieci anni, così, da un giorno si trasformano
in un secolo e il nome di Ruggero Chiesa, con il suo formidabile operato,
rischia di perdersi dietro alla miriade di nomi e avvenimenti che i media
chitarristici offrono quotidianamente e in gran quantità.
Noi non vogliamo che ciò accada e per far sì che non avvenga da
questo numero e per i tre successivi inauguriamo un nuovo spazio all’interno
della rivista. Sotto il titolo “Dieci anni dopo” comparirà una
selezione dei contributi di chiunque voglia ricordare la vita e l’opera
di Ruggero Chiesa – ex-allievi, colleghi, amici, semplici conoscenti o
lettori dei suoi scritti –; non vi sono vincoli formali, ognuno è libero
di dare al proprio contributo il taglio che crede, sia esso personale o professionale,
artistico o didattico, critico o aneddotico. Inaugura questa serie di articoli
in questo numero l’attento e sensibile scritto di Pablo Lentini Riva.
Coincidenza vuole che in questo numero largo spazio venga dedicato al XIX secolo
la cui letteratura fu oggetto di ricerca e di studio di Ruggero Chiesa.
L’articolo di Josep Maria Mangado Artigas pone il fuoco della sua attenzione
sull’attività chitarristica a Barcellona nell’anno 1850.
Lo studioso spagnolo coglie l’occasione per fare alcune interessanti
considerazioni sulle reali conoscenze della storiografia musicale – in
questo caso prendendo appunto come esempio la intensa storia della chitarra
nella vita musicale della
città catalana, finora poco o nulla considerata – per dimostrare
come a volte alcuni giudizi apparentemente incontestabili siano invece basati
su informazioni scarse o addirittura fuorvianti. Nulla di più vero,
soprattutto se pensiamo quante volte nella storia della chitarra le opinioni
su autori e
periodi hanno mutato di segno. Tuttavia, pur tenendo nella giusta considerazione
le corrette osservazioni di Artigas, ci rimane sempre la convinzione di fondo
che avevamo espresso nell’editoriale dello scorso numero: a prescindere
dal numero più o meno alto di concerti e concertisti attivi in Europa
nella seconda metà dell’Ottocento, i personaggi che rappresentavano
la chitarra ai massimi livelli erano purtroppo improntati alla mediocrità e
quindi non in grado di liberarla dalle pastoie in cui si era avviluppata. A
questo proposito sono illuminanti le parole espresse da Eduardo Fernández
nell’intervista
di questo numero, dove il chitarrista uruguayano attribuisce l’“eclisse” della
chitarra nell’Ottocento al fatto che l’unico obiettivo da parte
dei chitarristi era quello di compiacere il pubblico offrendo un intrattenimento
solamente piacevole senza preoccuparsi della qualità artistica.
Con il numero odierno si conclude l’ampio studio
monografico dedicato dal nostro collaboratore finlandese Jukka Savijoki
ad Anton Diabelli e alla sua produzione musicale. In quest’ultima
parte viene analizzata una questione di estremo interesse, ossia la prassi
notazionale in uso nelle pubblicazioni di Diabelli e, più in generale,
nelle edizioni ottocentesche: è fin troppo noto quanti problemi
e fraintendimenti abbiano causato l’impiego sempre più frequente
dei reprints, soprattutto da parte di chi – e pensiamo soprattutto
agli studenti – non ha una grande confidenza con le convenzioni
tipografico-musicali del XIX secolo. Siamo dell’opinione che le
informazioni riportate da Jukka Savijoki, oltre a chiarire molti dubbi,
desteranno anche non poche sorprese.
Completa le ricerche e gli approfondimenti l’interessante contributo di
Massimo Agostinelli, infaticabile ricercatore che da tempo sta dedicando la sua
attenzione alle figure cosiddette “minori” dell’Ottocento (e
quanto lo siano veramente, a volte, è ancora da dimostrare, soprattutto
se spostiamo o mutiamo i punti di riferimento della storiografia musicale tradizionale
sui quali spesso supinamente si appoggiano impianti musicologici, sistemi di
analisi storica nonché giudizi della critica musicale). Nel fuoco dell’attenzione
dello studioso marchigiano vi sono alcune trascrizioni di opere di Mozart che
Wenzeslaus Matiegka realizzò negli anni fra il 1806 e il 1812, fra i quali
un Trio finora sconosciuto scoperto dallo stesso Agostinelli.
Per concludere, come di consueto, alcune riflessioni brevi provenienti dalle
note di cronaca. Ormai è quasi diventata un’abitudine, tanto è diffusa,
la mancata assegnazione dei primi premi in molti importanti concorsi italiani:
pensiamo ad esempio ad Alessandria, Gargnano, Mottola, Bari. Che cosa sta succedendo?
Le ipotesi possono essere diverse e proveremo a sintetizzarle in tre punti. 1)
La crescita quasi esponenziale del livello tecnico in questi ultimi anni ha,
come dire, “assuefatto” le giurie che ormai hanno sempre più elevato
le aspettative e la “soglia dello stupore”: è innegabile,
anche se può sembrare offensivo nei confronti dei vincitori di concorsi
delle passate edizioni, che vincere oggi un concorso importante è molto
più difficile che in passato e, soprattutto, continua a diventare sempre
più difficile. 2) La preparazione tecnica dei concorrenti, a volte decisamente
straordinaria, è ormai diventata l’unica carta su cui puntare per
una vittoria e la vera qualità musicale, ciò che alla fin fine
conta veramente, è finita in secondo piano. Ancora una volta, le parole
di Fernández possono sostenere questa sensazione: “[…] Penso
che il progresso tecnico sia stato enorme: […] oggi siamo chitarristi molto
più bravi che in passato. Ma dal punto di vista più musicale, più esigente
e più complesso, mi sembra che abbiamo ancora tanto cammino davanti a
noi. Dobbiamo essere consapevoli di questo fatto.” 3) I concorsi sono diventati
così numerosi (soprattutto a carattere regionale o provinciale, dove al
contrario di quelli più importanti aggiudicarsi un premio non è poi
così proibitivo) che molti candidati affrontano la prova “sottogamba”,
o comunque con una preparazione non adeguata: tanto ce ne sono così tanti
che uno prima o poi una vittoria o un piazzamento salta fuori. Ognuno scelga
i motivi che ritiene più validi.
Vorremmo infine ricordare la bella manifestazione tenuta nella prima settimana
di novembre a Ponte in Valtellina, dove molti chitarristi e appassionati hanno
potuto ritrovarsi uniti grazie all’encomiabile impegno di Stefano Grondona
e Luca Waldner: una mostra di splendidi strumenti (da Rubio alla liuteria storica),
una serie di bellissimi concerti e numerosi eventi hanno dato modo a numerose
persone di gustare il fascino della chitarra, della sua storia, della sua musica
e dei suoi interpreti. Speriamo che questo spirito collaborativo continui ad
animare noi chitarristi: è tale arma che da due secoli ci permette di
superare le più grandi difficoltà.
Marco Riboni |