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D. Quale è stata la tua prima chitarra professionale?

R. Una Vincenzo De Bonis, che acuistai immediatamente dopo il mio incontro con Palladino. Avevo capito che la chitarra in mio possesso era mediocre, e impossibilitata a sostenere un'armatura con corde di nylon. Così mia madre mi fece un secondo regalo, ma siccome la De Bonis costava molto, e a quel tempo c'erano pochi soldi in casa, dovette ricorrere ad un prestito da parte di un'amica. In seguito ho acquistato una chitarra di   Lorenzo Bellafontana, liutaio genovese, e nel 1958, una Pietro Gallinotti, che ho ancora e che considero la mia chitarra preferita.

D. Quali altri strumenti hai usato dopo la Gallinotti?

R. Io non sono un fanatico collezionista di chitarre, come certi miei colleghi, che ne hanno a dozzine. Fino a due anni fa, quando ho acquistato una Kohno "Special", di grande pregio, ho suonato sempre con la Gallinotti, lo strumento che mi ha dato le migliori soddisfazioni per l'eleganza del suono e la qualità del timbro. Per breve tempo ho usato una Ramirez, ma non l'ho amata molto, anche a causa delle sue dimensioni poco adatte alla mia sinistra. Ho acquistato anche una Guadagnini del 1828, ma senza mai suonarla.

D. Dopo Palladino, quali sono stati i tuoi maestri?

R. Nel 1956, visto che gli studi proseguivano bene, Palladino mi consigliò di seguire le lezioni di Segovia all'Accademia Chigiana di Siena. Il Maestro, dopo avermi ascoltato, mi invitò a frequentare la classe del suo assistente, Alirio Diaz, in quanto non ero ancora nelle condizioni di essere accolto nella cerchia dei suoi allievi prediletti.

Non dimenticare che allora essi erano John Williams, Antonio Membrado, lo stesso Alirio Diaz, cioè tutti strumentisti di grandi capacità. Segovia ascoltava pure gli allievi di Diaz, e così anch'io ho ricevuto da lui qualche lezione. Ho frequentato i corsi della Chigiana, che si svolgevano ogni estate da metà luglio a metà settembre, dal 1956 al 1960, e in tutto quel periodo, inoltre, sono sempre stato allievo di Emilio Pujol, nella sua classe di vihuela.

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Saggio della classe di Pujol al teatrino
dell'Accademia Chigiana, 1959.

Le sue lezioni alternavano argomenti di carattere musicologico, soprattutto trascrizioni in notazione moderna, con esecuzioni di musica antica. Alla fine di ogni corso i partecipanti tenevano un concerto nella bella sala di Palazzo Chigi, e anch'io ho suonato spesso un repertorio per vihuela sola e per voce e vihuela.

D. Ricordi i tesi usati con il tuo primo Maestro, con Palladino, e con gli altri tuoi insegnanti?

R. All'inizio la mia formazione è stata spiccatamente dilettantistica. I pezzi che suonavo, a parte le serie accordali che oggi definiamo "giri armonici", erano composti dal mio stesso maestro, Canepa, o da uno suo zio, un fantomatico chitarrista di cui egli aveva una venerazione profonda, e che lo metteva addirittura in stato di soggezione. Il mio primo pezzo si intitolava "Torna primavera" (non so a chi appartenesse) ed il secondo una Mazurka dello zio. Poi attaccai Feste lariane, ma dietro mia insistenza, perché secondo il mio insegnante occorrevano almeno dieci anni di studio per suonare bene questa composizione. Quando si accorse che l'avevo appresa con una certa facilità, non si fece più vedere, e ad una persona che lo incontrò disse di aver avuto paura che io gli rubassi tutti i segreti della tecnica. Con Palladino, naturalmente, le cose cambiarono. La sua scuola, oltre che provenire dagli insegnamenti di Mozzani, era basata su alcuni testi pubblicati dalla Schott, e sul metodo Aguado-Sinopoli. Ho così conosciuto di Giuliani l'op. 1 e l'op. 48, di Sor le opp. 31, 35 e 60, di Carcassi l'op. 60, oltre ai brani di Aguado della revisione Sinopoli. Inoltre Palladino faceva studiare esercizi tecnici di Mozzani, che io trovavo molto difficili perché erano tutti basati sulle posizioni fisse e sul barré. La resistenza sul capotasto era un vanto di Mozzani e anche di Palladino, il quale, con una punta di soddisfazione sarcastica, mi parlava delle difficoltà che provavano tanti chitarristi nell'eseguire un brano di Mozzani dal titolo Sentiero fiorito, soprannominato da loro "Sentiero spinoso", a causa di posizioni con barré e doppio barré.

All'Accademia Chigiana non si nominavano assolutamente metodi o scuole. Il testo sacro, da cui si doveva partire, era rappresentato dai 20 Studi di Sor revisionati da Segovia. Pujol non parlava quasi mai della sua Escuela razonada, poiché, come lui diceva, essendo insegnante di vihuela non voleva toccare l'argomento della chitarra. Pujol aveva sostituito Segovia durante una malattia agli occhi, che lo aveva colpito, nel 1954 credo, e gli era stata poi affidata una classe di vihuela, che in un certo senso lo relegava al repertorio antico. A parte gli Studi di Sor, le uniche composizioni che si conoscevano erano quelle curate da Segovia per la Schott, e da Pujol per la Max Eschig. Si eseguivano anche alcuni Preludi di Villa Lobos, ma pochissimo i suoi Studi.

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D. Dopo le immancabili Feste lariane, quali sono stati i brani del tuo primo repertorio?

R. Nella preparazione per frequentare l'Accademia Chigiana ho studiato alcuni Preludi di Ponce, il suo Valzer, la celebre Frescobalda, la Suite di Kunhau.

Quando mi sono avvicinato a Pujol, scoprendo la musica antica, ho suonato tante sue trascrizioni. In seguito, durante i corsi di Siena, ho appreso altre opere del repertorio segoviano. Le lezioni di Segovia erano basate sugli autori che egli interpretava: Ponce, Castelnuovo-Tedesco, Turina, Moreno-Torroba, oltre alcune trascrizioni di Bach, come la Ciaccona.


Accademia Chigiana 1958, R. Chiesa con E. Pujol

Non diceva molto sui pezzi che non conosceva o non amava, come la musica dell'Ottocento. Quando John Williams gli fece ascoltare una delle prime composizioni di Duarte, un Notturno, lo ascoltò con piacere, ma senza fare alcun commento.

D. Come è cominciato il tuo lavoro editoriale?

R. Nel 1963 ho avuto la fortuna di essere nominato insegnante della prima classe di chitarra istituita nel Conservatorio di Milano. Fu per me un fatto eccezionale e inaspettato, che mi diede una forte carica di entusiasmo. Essere chitarrista in quegli anni non era cosa facile: i concerti erano rari, e così le lezioni, e ancora non era esploso il boom del nostro strumento. Si notavano però i sintomi di qualcosa di grosso che si stava muovendo, e per questa ragione stavano nascendo le classi di chitarra nei vari Conservatori italiani. Terminata la frequenza all'Accademia Chigiana, nel 1960, avevo cominciato a lavorare nel settore della musica antica. Mi ero accorto che non esisteva una trascrizione in notazione moderna di El maestro, l'opera del più grande compositore per vihuela, Luys Milan, che Pujol ci aveva insegnato ad amare. Per la verità una trascrizione era stata pubblicata negli anni Trenta da Leo Schrade, ma si trattava di un lavoro particolare, cioè di una trascrizione dell'intavolatura in notazione moderna, senza l'interpretazione dei valori ritmici, quella che noi chiamiamo "trascrizione oggettiva". I problemi da risolvere erano ben altri: era necessario compiere una vera ricostruzione, e così realizzai la prima "trascrizione interpretativa" di questo capolavoro, anche se non sapevo esattamente a chi poteva servire.

In quello stesso periodo frequentavo a Milano il negozio di musica di Natale Gallini, che non era un semplice rivenditore, ma un musicista colto e preparato, proprietario di una preziosa collezione di strumenti antichi poi ceduta al Castello Sforzesco. Gallini era stato amico di Toscanini e di tante altre personalità dell'ambiente musicale milanese. Io conoscevo molto bene anche sua moglie, una persona molto attenta a ciò che avveniva nel nostro ambiente. Dopo aver saputo della mia nomina al Conservatorio, la signora Gallini mi consigliò di presentare qualche lavoro alle case editrici nazionali più importanti, tutte aventi sede a Milano. Io avevo già terminato la trascrizione di El maestro, e mi accingevo alla revisione di una serie di studi dei nostri autori classici, ma non sapevo a chi rivolgermi per un'eventuale pubblicazione. La signora Gallini telefonò allora alle edizioni Curci, per conoscere un'opinione sulle prospettive di stampare musica per chitarra, ricevendo una risposta negativa: di questo strumento a loro non interessava nulla. Qualche tempo dopo, l'intraprendente e gentilissima signora mi fece ottenere un appuntamento con il famoso Ladislao Sugar, proprietario delle Edizioni Suvini Zerboni, al quale nel frattempo aveva anche scritto una mia lontana parente, che lo conosceva di persona. Sugar mi ricevette, e io gli parlai a lungo, senza essere interrotto, dei lavori che avevo realizzato e della mia convinzione circa un positivo sviluppo futuro della chitarra. La risposta di Sugar fu questa: "La chitarra non fa parte dei progetti della casa editrice, ma prima di rifiutare la sua proposta la farò parlare con il nostro direttore artistico". Sugar non era molto addentro alle sottili questioni della musica classica, ma aveva la capacità di intuire sempre ciò che si nascondeva dietro le nuove iniziative. Mostrai così i miei lavori al direttore artistico, che allora era Riccardo Malipiero. Essi consistevano nella trascrizione di El maestro e in una scelta di Studi di Aguado, ai quali avevo aggiunto la diteggiatura. Malipiero, una persona colta e con un atteggiamento positivo nei confronti delle novità, ascoltò i criteri che mi avevano mosso, tenne con sé le musiche per una lettura, e mi telefonò a casa dopo pochi giorni per dirmi che avrebbe pubblicato sia Milan che Aguado. Aggiunse anche, scherzosamente, di non farmi illusioni circa i proventi economici che ne sarebbero derivati, al massimo ne potevano uscire i soldi per le sigarette. Nessuno di noi si rendeva conto che la chitarra era alla vigilia di fare un grande balzo, e che l'attività editoriale in questo settore avrebbe raggiunto entro qualche anno livelli altissimi. Dopo la raccolta di Studi di Aguado, presentai alla Suvini Zerboni, dietro richiesta di Malipiero, le revisioni di studi appartenenti a Carulli e a Sor, oltre a un metodo elementare intitolato Tecnica fondamentale della chitarra, tutto materiale che mi serviva per i miei allievi. La stampa di questi lavori mi risparmiava un lungo lavoro al momento delle lezioni, e, più che per il successo di carattere editoriale, sentivo la soddisfazione per la comodità che mi derivava.

D. Dopo queste pubblicazioni, con quali criteri hai proceduto nel tuo lavoro?

R. Mi sono dedicato in particolare alla musica antica, nella convinzione che il liuto e la vihuela avrebbero avuto un grande sviluppo nel futuro, ma non in un tempo così rapido come poi è accaduto. Quindi pensavo che, almeno per un certo numero di anni, la chitarra fosse l'unico strumento in grado di far rivivere, seppure in modo non rigorosamente filologico, quella meravigliosa letteratura. Mi gettai con entusiasmo in questa impresa, e i frutti furono la trascrizione del manoscritto del British Museum contenente musiche di Weiss, le opere complete di Francesco da Milano (un impegno che mi costò anni di fatica), la nuova edizione di El maestro, una serie di antologie di musica antica, l'opera liutistica di Michelangelo Galilei e alcuni concerti per liuto e archi di Fasch e di Krebs.

Ad un certo momento mi sono accorto che gli strumenti antichi, soprattutto il liuto, si diffondevano rapidamente, mentre gli esecutori preferivano leggere la musica o direttamente dall'intavolatura o tramite la trascrizione su due righi, che ormai stava soppiantando quella su un rigo solo.

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