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D. Che pensi dei concorsi di chitarra?

R. I concorsi sono un mezzo per far conoscere gli interpreti di talento ancora sconosciuti o quasi. Per questa ragione essi dovrebbero essere limitati a persone molto giovani, poiché rappresentano un punto di partenza, e non di arrivo. Servono per mettersi in luce e per abbreviare un po' l'attesa della carriera concertistica. Vincere un concorso per la semplice gioia di essere arrivato primo non ha significato.

I risultati non lasciano sempre tutti contenti. Quali ricordi hai a questo proposito?

Giudicare è molto difficile. Si può anche sbagliare, ma ciò che importa è agire con coscienza, e non farsi influenzare né da motivi personali, né da simpatie di carattere artistico. Inconsciamente, ciascuno di noi è portato a premiare l'elemento che più si avvicina al proprio ideale chitarristico e musicale. Questo atteggiamento è più che comprensibile, ma così facendo si tende a premiare narcisisticamente la propria immagine, o tutt'al più il prodotto della propria scuola. Il problema è però diverso. Si agisce veramente in modo corretto quando, se certi elementi oggettivi dell’interpretazione sono assicurati - ,mi riferisco per esempio alla buona lettura o ad una sufficiente coerenza stilistica - si sceglie fra i concorrenti la personalità veramente più rappresentativa.

Questo avviene di frequente?

Non sempre. I giudizi sono spesso il risultato dell'irrazionalità istintiva, quando non si tratta di tentativi coscienti di favoritismo. Ricordo un famoso chitarrista che in un concorso, mi disse che non voleva premiare un giovane perché si dava le arie del concertista. Avrebbe invece dovuto motivare la sua scelta unicamente con argomenti musicali. Una persona può anche risultare antipatica, ma il giurato deve emettere un verdetto artistico, non isterico-sentimentale.

Cosa pensi ti sia mancato nella formazione chitarristica che hai ricevuto?

Da un punto di vista meccanico, ho ricevuto sempre consigli sbagliati, o comunque non chiari. Sotto il profilo musicale ho avvertito molto l'influenza di Segovia, temperata da quella di Pujol. Si è trattato però di criteri estetici generali, mai di conoscenze specifiche. In realtà sono un autodidatta, come tanti della mia generazione.

A proposito della tua "Storia della letteratura del liuto e della chitarra", che procede molto lentamente, cosa puoi dire?

Portare a fondo un lavoro impostato in quel modo è un'impresa quasi impossibile. Quando ho iniziato la prima puntata mi rendevo conto della sua enorme difficoltà, ma speravo di poter procedere con una maggiore speditezza. Ho dovuto invece fare i conti con una materia musicale che non permetteva riassunti approssimativi, se si voleva mantenere l'aspetto bio-bibliografico e analitico. Non so quindi se mi sarà consentito terminare almeno il periodo relativo al Cinquecento, un'epoca che mi interessa moltissimo. Tuttavia, anche se non riuscissi nel mio scopo, rimarrà qualcosa di egualmente organico, cioè delle tesi su determinati compositori, presentate in ordine cronologico.

Quale procedimento hai usato?

Ho preso in esame le opere per liuto, vihuela, chitarra che ci sono pervenute a cominciare dagli inizi del Cinquecento - dai libri di Spinacino pubblicati da Petrucci, per intenderci - e ho proseguito a tappeto, risalendo negli anni. Di ciascun compositore traccio un profilo biografico, quando ciò è possibile, stendo l'elenco completo dei suoi brani e analizzo quelli più significativi.

Hai scoperto cose interessanti?

Devo premettere che il mio tipo di lavoro è il primo del genere su tale argomento e su tale periodo. Questo non significa che non si poteva far meglio, ma semplicemente che il mio studio è l'unico, al momento, a consentire una visione particolareggiata sui primi quaranta anni del Cinquecento nel campo degli strumenti che ho scelto. Tutto ciò che ho scritto ha rappresentato quindi, per me, una scoperta egualmente interessante. Certo, ci sono differenze di valore tra i compositori che ho preso in esame - Francesco da Milano non si può paragonare a Hans Newsidler - ma ogni articolo ha la stessa importanza nella ricostruzione di quel particolare momento storico, dove il liuto, soprattutto, era lo strumento principe.

Quali collaboratori ti piacerebbe avere, oltre gli attuali, e quale indirizzo futuro darai alla rivista?

I collaboratori ideali sono coloro che affrontano un argomento con piena cognizione e che espongono con chiarezza le loro idee. Spero semplicemente che la giovane generazione offra al più presto studiosi preparati: ne abbiamo bisogno. Circa il futuro del "Fronimo", penso che sarà sempre di impronta musicologica. Tenteremo di ricostruire, per quanto possibile, la storia della chitarra e del liuto attraverso saggi specifici o di carattere generale. È un lavoro complesso e lungo, ma rappresenta l'unica strada per chiarire il ruolo storico di questi strumenti. Poi, per quanto concerne la chitarra, sarà dato maggiore spazio alla musica contemporanea e alla didattica.

Alcuni lettori pensano che la musica d'oggi sia stata in effetti un po’ trascurata.

È vero solo in parte. Non vi è nulla di più difficile che conoscere tutte le nuove composizioni, e segnalare le più significative tra di esse. La musicologia è sempre un po' retrospettiva. C'è bisogno di qualche tempo per compiere confronti, per studiare lo stile e la tecnica di opere non sempre semplici, per non farsi trarre in inganno da giudizi troppo immediati, positivi o negativi.

Qual è l'intervista più significativa che ricordi di aver fatto per "il Fronimo"?

Ve ne sono alcune. Ricordo una delle prime, con Petrassi, molto interessante non solo per la grande personalità di questo musicista, ma anche per le sue osservazioni sulla chitarra. Poi, tra le altre quella con Bream, di cui mi incuriosivano le idee, specialmente se legate al problema del repertorio.

E ci sei riuscito?

Ho compreso la sua inquietudine, il suo desiderio di suonare musiche di qualità, e il rammarico di non poterlo fare sempre, come egli ritiene, attraverso la chitarra.

Mi avevi detto che, alla domanda di quali concerti per chitarra e orchestra gli piacessero di più, Bream ti rispose: "i concerti di Beethoven". È una battuta che non hai pubblicato.

Mi sembrava infatti una battuta, bisognosa di un commento più approfondito che Bream non volle fare.

E quale poteva essere la ragione di questa risposta singolare?

Bream, come tanti chitarristi, non crede sempre fino in fondo a quello che suona. È il dramma della nostra generazione, e anche di tanti giovani. Sentirsi umiliati nel suonare alcuni concerti di chitarra e orchestra, come quelli di Giuliani, soltanto perché non si possono paragonare ai concerti di Beethoven, è segno di una frustrazione pericolosa. Io posso capire ciò che pensa Bream, quando, in contatto con uno strumento straordinario come la chitarra, immagina quali risultati avrebbe potuto raggiungere con la musica dei grandissimi compositori. Tuttavia, è inutile macerarsi nel rimpianto di ciò che non è avvenuto. Questo stato d'animo, oltre tutto, impedisce una equilibrata valutazione del nostro repertorio, e così si giunge a negare la qualità anche quando essa esiste. Noi chitarristi ci comportiamo sovente come provinciali: abbiamo bisogno dell'avallo di altri per giustificare le nostre scelte. Ma ben pochi di noi sanno rispondere a tono quando si sentono attaccati sulla consistenza della letteratura originale. La maggior parte si unisce al coro delle denigrazioni, anche nel caso in cui sono palesemente ingiuste.

Esistono musicisti o musicologi che apprezzano le composizioni per chitarra?

Certamente, e sono più numerosi di quanto crediamo, ma essi non possono convincersi del tutto senza l'aiuto dei chitarristi.

Le critiche sono più frequenti nei confronti del repertorio classico o di quello moderno?

Le opere contemporanee sono quasi tutte al riparo dai commenti negativi, e si capisce il perché. Oggi nessuno osa dire che una musica è brutta se appartiene ad un nome discreto. Si ha paura delle reazioni personali, e così si preferisce infierire sui morti: è molto più comodo. Le frecciate riguardano invece il nostro passato. Per il periodo classico e romantico l'accusa è sempre quella di non avere avuto dalla nostra parte i grandi compositori. Sulle musiche del Novecento i giudizi sono un poco più positivi. Anche qui contano i nomi prima di tutto. Così, se un brano come l'Homenaje di de Falla è giustamente osannato, non si può dire così per l'altrettanto stupendo Fandanguillo di Turina, e questo solo per il fatto che Turina gode di minor credito. C'è poi tutto il repertorio dell'America Latina, dove, se spesso non si va oltre l'impronta folcloristica, esistono pure molte pagine di grande valore. Ebbene, mentre il musicologo europeo stravede per le musiche che riecheggiano il folclore slavo, arriccia sempre il naso quando la derivazione popolare proviene da altri continenti. Su Bartok si sono scritti saggi a non finire, e ben a ragione, ma su Villa Lobos neppure una parola.

Se tu stessi aspettando un'intervista, c'è una domanda che desidereresti ti venisse rivolta?

Una domanda in particolare, no. Da un'intervista ti aspetti che si sappia cogliere l'essenza del tuo pensiero, e ciò implica un discorso più vasto. Mi piacerebbe esprimere bene ciò che intendo realizzare nella mia professione, ma perché questo possa avvenire le domande non dovrebbero essere disgiunte da riferimenti più personali. Io credo che tanti problemi della musica, o meglio, del modo di far musica, siano strettamente legati alla propria scelta di vita interiore, ai pensieri di tutti i giorni, ai contatti che abbiamo con le altre persone. L'intervistatore ideale deve, di conseguenza, conoscere a fondo chi gli sta di fronte, in modo da non rischiare di porre domande banali, e da non ricevere risposte convenzionali.

Se tu potessi reincarnarti in un compositore chitarrista del passato, chi sceglieresti? Fammi due esempi, uno riguardante la vita, l'altro per la musica.

La vita sarebbe molto interessante comunque. Pensa alle esperienze di Sor in Spagna, a Parigi, a Mosca, o di Giuliani: Vienna, Roma e Napoli! Se devo riferirmi alla musica, mi sembra di essere particolarmente vicino all'estetica di Giuliani.

La vita di questi personaggi non è stata però molto facile, e quella di Giuliani si è spenta a soli 48 anni.

Non mi sembra che la vita debba essere valutata solo in termini di tempo, quanto dall'intensità con cui si è svolta. Conta il "realizzarsi", per citare un termine di moda.

Perché la musica di Giuliani?

E' un compositore che mi piace, a parte per il valore della sua musica, per il carattere sereno, a volte malinconico ma senza esasperata drammaticità. Mai volgare, virtuoso senza aridità, più profondo di quello che si immagina, elegante sempre.

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